Le 12 sezioni
OltreCittà / Le 12 sezioni
1. Città desiderata
Talvolta le immagini ci raccontano di città amiche, desiderate, luoghi di memorie e identità. Sono spazi soggettivi, sognati, o reinterpretati dalla nostalgia, quasi mai reali, a volte mai esistiti. Rappresentano posti che avremmo voluto, o abbiamo creduto di abitare. Oppure sono miraggi, speranze, illusioni che possa esistere una forma urbana capace di migliorare la condizione umana. “Volevo che le città fossero splendide, piene di luce, irrigate d’acque limpide, popolate da esseri umani il cui corpo non fosse deturpato né dal marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore d’una ricchezza volgare […]. A questo ideale, in fin dei conti modesto, ci si avvicinerebbe abbastanza spesso, se gli uomini vi applicassero una parte di quell’energia che vanno dissipando in opere stupide o feroci” (Yourcenar, 1951), chiosa Adriano imperatore nelle pagine di Marguerite Yourcenar. Dalla Ville arabe di Wols, improvvisa nel baluginare azzurro del miraggio, a Firenze (III/XII) di Gerhard Richter, che scioglie cieli azzurri, tra- monti infuocati e acque limacciose nella pennellata che disperde i confini, sino al sogno lecorbusiano di una nuova città a misura d’uomo nel lontano Punjab, la città si fa spazio del desiderio.
2. Città ostile
La civitas ha smarrito la dimensione comunitaria ed è divenuta ostile, non tollera più la diversità, la divergenza, che sia di forme, di cultura, di genere o di capacità e l’urbs si è riempita di spazi generatori di discordia e violenza. Scriveva Pier Paolo Pasolini, “Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo” (Pasolini, 1975). Una dittatura che ha stravolto il significato di spazio pubblico, non più aperto a tutti, ma precluso ai molti, che, non essendo ‘consumatori’, non hanno il diritto di apparire, di affermare la propria identità. Guardiamo allora la Cittadella ostile di Vinicio Berti, Arrivando in città di Titina Maselli e l’acuminata, ostile e irraggiungibile cittadella di Mauro Staccioli per comprendere come appaia evidente agli artisti che la nuova città abbia prodotto vite di scarto che vivono in spazi di scarto.
3. Mappe di città
A volte le città possono essere ‘mappe’, diagrammi, partiture, sentieri e l’attenzione si può spostare dai volumi ben definiti nello spazio tridimensionale agli spazi residuali, interstiziali, dove ognuno può perdersi, trovare quello che desidera e fare quello che vuole. La mappa diviene immagine di una città infinita senza centro né confini: “Amo le mappe […] – scrive W. Szymborska – perché con indulgenza e buon umore sul tavolo mi dispongono un mondo che non è di questo mondo” (Szymborska, 2012). Uno schema ripetuto e ripetibile all’infinito, che diviene “un paziente labirinto di linee che traccia l’im- magine del […] volto” e la città cessa di essere un luogo e diviene condizione intima e rispecchiante l’esistere. E se la mappa non fosse altro che la traccia che il tempo lascia su di noi la ritroveremo imprevedibile nella New Babylon di Constant, progettata per una nuova umanità finalmente libera di percorrere le infinite rughe della propria esistenza, oppure nella Mappa di Venturino Venturi dove le aggregazioni reticolari esplodono verso altre ed infinite dimensioni, allo stesso modo del diagramma sonoro per 49 Waltzes for the Five Boroughs di John Cage.
4. Città dell’uomo
La città produce vite di scarto che vivono in spazi di scarto “fatti con la lava bollente del brutto, del rumore, strade sopra strade, tremendi ponti di ferro, treni, camion, Tir, corsie con sbarramenti, impraticabili autostrade, un vero teatro di guerra” (Ceronetti, 2014). In questi contesti urbani basta allora gettare lo sguardo ‘oltre la siepe’ per vedere che “lo sfacelo è dovunque, la disarmonia è universale. […] Persone infrante, cose infrante, pensieri infranti”. Nelle immagini di Moriyama Daido tutta la violenza e la bellezza della strada dove creature infrante ricercano e trovano una nuova bellezza che risiede anche nella totale assenza di omologazione, quelle medesime creature accarezzate dall’umanissimo sguardo di Mario Giacomelli per giungere infine al collage di Benedetta Tagliabue, dal quale sorge la città nuova, la nuova bellezza del disordine, della diversità e della riappropriazione, unica vera sorgente della nuova città dell’uomo.
5. Utopie
Le città dell’utopia sono, per alcuni, specchio dell’armonia dell’universo, oppure sono un sogno, una outopia, un non-luogo; per altri sono una possibile realtà, una eutopia, un buon-luogo, un preciso impegno politico e sociale. Le forme sotto cui l’ideale di città si manifesta nel tempo, sono varie: dalla narrazione letteraria, alla trattazione filosofica; dalla pianificazione spaziale a quella sociale. Ognuna di esse posa sulla convinzione che si possa, attraverso la realizzazione di un determinato schema fisico e sociale, arrivare a mutare il volto della terra, a creare il ‘migliore dei mondi possibile’, a rendere l’uomo più felice e la società migliore. Ma “si può disegnare la felicità?!?” si chiedeva Bruno Taut (Die Stadt- krone – Bird’s eye view, looking west, 1919) all’inizio del secolo scorso, promuovendo la dissoluzione della città e delle “case di pietra [che] fanno cuori di pietra”. La felicità “noi – tutti – la possiamo sperimentare – e costruire” (Taut,1920), era la sua ferma convinzione. Da Alberto Burri che sfidò il destino ricostruendo una nuova Gibellina (Bozzetto per Grande Cretto, Gibellina, 1981), traccia concreta della vita che vi era scorsa e che non poteva andare perduta per sempre, a Lorenzo Bonechi con la sua Città celeste, che nel perfetto rigore rinascimentale rispecchia l’utopia agostiniana, sino al Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, il buon luogo dal quale sorgerà la nuova umanità.
6. Tracce urbane
Le città parlano: la storia deposita nei secoli una patina di segni, di significati, di memorie, di valori, sugli elementi che le costituiscono. Al linguaggio dell’architettura, che è stato il primo specificatamen- te urbano, si sono aggiunti altri codici, dialetti inventati, giochi verbali che hanno paradossalmente abbassato il potere comunicativo dello spazio urbano in quanto tale, banalizzandone il messaggio, riducendone il livello della comunicazione. “Torniamo pure – scrive Aldo Palazzeschi – tra pastiglie di Re Sole, Modes, nouveauté e grandi tumulti a Montecitorio […]” (Palazzeschi, 1913). È questa la città del rumore, della contaminazione di immagini pubblicitarie, informazioni all’utente, segnali ufficiali e suoni contrastanti, seducente e stimolante secondo alcuni, fastidiosa e alienante per altri. Nel tentativo di non restare muto e di affrancarsi da una egemonia comunicativa qualcuno ha inoltre iniziato ad affiancare alla comunicazione ufficiale un controcanto, spargendo nuovi segni, uno slang urbano che ricopre superfici anonime e disadorne, prive di qualsiasi messaggio. Nei Muri di Nino Migliori, nei manifesti strappati di Mimmo Rotella, nella Valvasone di Gianni Berengo Gardin e in Ritratto di città di Luciano Berio, Bruno Maderna e Roberto Leydi, la città risuona talvolta vuota e fragorosa, talvolta poeticamente presente.
7. Memorie di città
Ci sono città che vivono rinchiuse nella nostra memoria e che la nostalgia trasforma riportandole alla mente. L’ambiente in cui viviamo infatti interviene nella costruzione della nostra identità, ci radica a un luogo, che è fatto non soltanto di forma e materia, ma di paesaggi emotivi, ricordi personali e tradizioni condivise. Scrive Giovanni Michelucci, “Io della mia città […] ricordo quando ci rincorrevamo nella piazza del Duomo, quando si usciva dalla scuola e ci picchiavamo, ci tiravamo le cartelle… Io quei mo- menti li ho scritti ancora dentro; quei momenti fecero nascere in me, senza esserne ancora cosciente, il senso della città” (Michelucci, Cecconi, 2002). Ma può accadere anche che la città dia forma alla memoria, che divenga la trascrizione di un ricordo, di una tradizione nella contingenza del luogo reale. La città della memoria dunque non si cancella ma rischia di svanire poiché obbligata a restare uguale a se stessa per essere ricordata. Ne è esempio Piazza d’Italia di Giorgio de Chirico, impaginata come un puzzle di ricordi interrotti che si ricompongono in un paesaggio fittizio fatto soltanto di frammenti di memoria. “Le città sono fatte di strati sovrapposti, creati dalle epoche diverse in cui vi abbiamo vissuto […]. La nostra memoria soggiorna ora su uno strato ora sull’altro. Vi si posa come un uccello” (Ginzburg, 2016), scrive Natalia Ginzburg e la memoria consente a Gherardo Dottori di volare alto nella sua Sintesi di Padova, mentre la mappa cittadina diviene per Carmen Andriani il proprio Autoritratto.
8. Città ribelle
Gli spazi urbani abbandonati, indecisi, privi di funzione possono trasformarsi in rifugi per la diversità, luoghi in cui la bellezza risiede non nell’ordine, ma nella varietà. C’è una città che resiste, popolata da minoranze che si ribellano alla convinzione di non contare nulla, di non potersi opporre. La città, il quartiere, il ghetto si arricchiranno allora di una infinita gamma di ‘alterazioni’ individuali, che vanno dalla modificazione fisica e funzionale degli spazi comuni, ad esplosioni anarchiche di scritte e colori sui muri, alla costruzione di giardini in un barattolo. Qui la collettività si riappropria degli spazi urbani trasformandoli, e trasformando lo spazio prova a trasformare se stessa. È questa la città che accoglie, che lascia tempo e spazio per esprimere la propria identità, che promuove una società plurale, costruita sulla molteplicità, invece che sulla uniformità. Dove la ‘spontaneità’ perduta riemerge inarrestabile tra le maglie della pianificazione. Ne sono testimonianza Casa occupata (Besetztes Haus) di Richter e Conical intersect di Gordon Matta-Clark, che in opposizione alla efficiente demolizione ha fatto posto all’umanità che sgorga fuori da quei muri perforati.
9. Elementi di città
Sequenze, ritmi, ripetizioni caratterizzano spesso l’immagine urbana. A volte sono parte della sua struttura, altre volte rappresentano i materiali con cui è costruita, altre ancora sono semplicemente frammenti, relitti di qualcosa che non esiste più. Volumi, linee, superfici, piani colorati, orizzontali e verticali, sono le parole di una grammatica che ci parla di una ‘città elementare’, che cerca l’armonia attraverso l’equilibrio dei rapporti tra i diversi elementi. L’accostamento inventivo di elementi può tra- sformarsi anche in una ‘metodologia partecipativa’ alla costruzione della città, che rinuncia al rigore del ‘progetto totale’ dell’urbanista-demiurgo, preferendo a questo il collage dell’artista che procede per frammentazione e ricomposizione di materiali urbani, permettendo variazioni continue in un gioco apparentemente infinito. Da Mario Nuti ad Alvaro Monnini a Giuseppe Uncini sino a Sol LeWitt, gli artisti hanno popolato l’immaginario urbano di presenze assertive indifferenti alla programmazione urbanisti- ca, come un gioco ‘cubista’ di scomposizione e ricomposizione di elementi semplici necessari, per un mondo complesso e frammentario.
10. Nature urbane
Parchi, giardini, boschi verticali portano in città una natura addomesticata, asservita a logiche di or- dine, decoro, estetica, igiene, mitigazione ambientale, ma “poi cala la notte e i parchi si ribellano. […] Così, improvvisamente, la moralità urbana vacilla sotto gli alberi” (Aragon, 1926). La battaglia contro il disordine e le erbacce è destinata dunque ad essere persa: il caos resiste negli intervalli e negli inevi- tabili interstizi che sfuggono a ogni previsione e normativa. In questi spazi ‘in attesa’ o ‘abbandonati’ riaffiora l’inconscio urbano e si afferma con evidenza l’impossibilità di separare umanità e natura, città e ambiente, ordine e disordine. Forse più di tutte è questa la città che ci auguriamo: un ‘innesto’, una fusione fisiologica tra uomo e natura che trasformi lo spazio urbano in un luogo non di integrazione, ma di ‘accoglienza’: del diverso, dell’inatteso e delle immense sfumature della ‘biovarietà’ urbana.
11. Paesaggi urbani
I paesaggi urbani sono palcoscenici in cui va in scena la stratificazione dei cambiamenti culturali, strutturali, economici, tecnologici introdotti nel tempo dall’uomo. E nello stesso tempo vi si narrano ‘le storie’ degli uomini: piccoli fatti quotidiani, segni, simboli della vita domestica di un determinato tempo e luogo. Azione e narrazione contribuiscono quindi ugualmente a costruire l’immagine della città, che è fatta di monumenti così come delle storie minute, della trama dei racconti. La costruzione del paesaggio urbano potrebbe essere assimilata ad una ‘partitura’, ad una azione corale, con cui tecnici e cittadini, registi e attori, compositori e interpreti danno vita ad un’opera d’arte ‘collettiva’. Le città allora diventano paesaggi “accoglienti per l’imprevisto, […] che continuamente ci invitano a ballare, ognuno la propria danza oppure tutti insieme la stessa partitura” (Metta, Di Donato, 2014). Ci accompagni allora la ritmica partitura di Francesco Lo Savio oppure Modulazione di Gualtiero Nativi o la Città frontale di Pietro Consagra, visioni di una vocazione all’abitare ove il reticolo urbano retrocede dinanzi ai nuovi spazi che ciascuno di noi, per una volta o per sempre, è chiamato a tracciare.
12. Metropolis
Alla realtà urbana del tempo presente si è sempre contrapposta la visione della città ‘futura’, un luogo ideale, dove passato e presente si dissolvono dando origine a spazi senza tempo. È questa la metropoli proiettata in un indefinito domani, che alimenta la perenne illusione umana di poter orientare, attraverso la configurazione dello spazio, la traiettoria del progresso e dell’evoluzione. È una città fatta di luoghi spesso ibridati tra innovazione e tradizione; contesti fantascientifici sparsi per l’universo, o territori dove una rinnovata riconciliazione tra uomo e natura potrebbe generare spazi autosufficienti capaci di auto- alimentarsi e autogenerarsi. Quasi sempre sono immagini di un mondo super-tecnologico costituito da super-architetture che fluttuano sospese in aria, o da griglie tracciate all’infinito che fanno tabula rasa delle specificità locali. Così lontane e indifferenti alla realtà terrena che assai di rado vi si incontrano esseri umani. Un fantastico racconto drammaticamente privo di vita da l’archetipo della metropoli immaginato da Citroen, che poi fu fervidissimo di epigoni, al sogno progettuale di Antonio Sant’Elia, sino alla New York di Superstudio: tutte bellissime come lo erano le città ideali del Rinascimento e prive di vita, poiché la realtà con le sue imprevedibili perturbazioni si oppone ai ‘disegni dell’uomo’.